Sentenza su software senza licenza

Con sentenza del dicembre dello scorso anno (n. 49385) la Cassazione ha stabilito che l'utilizzo di software illecitamente duplicato in uno studio professionale non integra i reati di cui all'art. 171 bis l. 633/41.

La vicenda giudiziaria riguarda il caso di un geometra che utilizzava 4 computer in cui risultavano installati programmi Microsoft Office e Word in mancanza delle relative licenze.

 

La norma prevede due distinte ipotesi di reato:

  • la prima riguarda il comportamento di chiunque “duplica, per trarne profitto, programmi per elaboratore “ mentre la seconda riguarda:
  • l'attività di chiunque “ai medesimi fini importa, distribuisce, vende, detiene a scopo commerciale o imprenditoriale o concede in locazione programmi contenuti in supporti non contrassegnati dalla Società italiana degli autori ed editori (SIAE)”.

Entrambe le ipotesi devono essere connotate dallo stesso dolo specifico, ossia dalla volontà di “profittare” della duplicazione: sotto tale profilo, quindi, basta ad integrare la fattispecie, il semplice risparmio di spesa connesso al mancato acquisto delle licenze, mentre non è necessario l'ulteriore requisito del lucro (termine – quest'ultimo - presente nella formulazione originaria dell'art. 10 d.lgs. 518/1992, ma poi modificato nella successiva norma contenuta nell'art. 13 della legge 248/2000). Non rileva nemmeno se l'attività di duplicazione sia connessa da un soggetto particolare (imprenditore, privato o professionista).

La norma punisce pertanto l'attività di duplicazione o quella di detenzione; in tale secondo caso, però, non rileva ogni detenzione, ma solo quella effettuata a scopo commerciale o imprenditoriale. Inoltre la detenzione non è riferita ad ogni supporto, ma solo a quelli privi del contrassegno SIAE. Affinché possa dirsi integrato il reato di illecita detenzione pertanto debbono sussistere simultaneamente due condizioni:

1) lo scopo commerciale o imprenditoriale;

2) la mancanza del contrassegno SIAE.

Con riferimento alla prima delle due ipotesi di reato è da rilevare come già il giudice di primo grado avesse assolto l'imputato poiché non v'era alcuna prova che egli fosse l'autore della duplicazione: non si può infatti desumere una prova dell'attività di duplicazione dal semplice possesso di una copia duplicata.

Il geometra era stato però condannato in relazione all'altro reato, ossia a quello di detenzione a scopo commerciale: sul punto la Cassazione ha invece chiarito che non può esservi (tranne rarissimi casi da valutare attentamente) una confusione tra l'attività professionale e quella commerciale/imprenditoriale: a meno che non si dimostri che il professionista svolga la sua attività con un organizzazione tale da poter essere assimilata ad una vera e propria azienda. Permane, infatti, una certa differenza giuridica tra attività professionale svolta in maniera prevalentemente personale ed attività di servizi – che nel concreto potrebbe avere ad oggetto prestazioni molto simili – svolta in forma imprenditoriale. E, nel dubbio, l'interpretazione può andare solo a favore (e non contro) il reo, stante anche il divieto di analogia o interpretazione estensiva in ambito penale. In altre parole il giudice di primo grado aveva impropriamente allargato il novero delle condotte illecite facendovi rientrare anche quelle relative ai professionisti, benché la legge, si limitasse a sanzionare quelle relative a scopi commerciali/imprenditoriali.

La Corte, poi, sviluppa un'ulteriore considerazione che non è affatto una novità, ma al contrario una conferma: siccome lo Stato Italiano non ha (ancora?) notificato correttamente alla Commissione Europea il proprio sistema a “bollini” (contrassegno SIAE), l'obbligo di apporli, giuridicamente, non esiste, come stabilito anche dalla Corte di Giustizia nel noto caso. Di conseguenza il reato non può sussistere anche perché l'assenza del bollino non è – ad oggi almeno – sanzionabile.

Rimangono sullo sfondo alcune questioni.

Innanzitutto, la Corte Suprema non ha potuto affrontare direttamente (ostava una questione di giudicato, poiché l'assoluzione sul punto non era stata impugnata) il problema del concorso “morale” dell'imputato che, in qualche modo avrebbe “promosso” o “consentito” la duplicazione. In ogni caso è bene ricordare che il concorso in un reato doloso non può che essere egualmente doloso, quindi, non può parlarsi di colpa o mancanza di diligenza con riferimento ad un reato commesso da terzi, seppure collaboratori: per affermare la responsabilità del geometra si sarebbe dovuto provare che egli con coscienza e volontà aveva in qualche modo collaborato nell'attività di duplicazione.

Inoltre l'interpretazione prospettata pare aderente al dettato legislativo solo sotto il tenore letterale ed operando una estrapolazione del concetto di detenzione dal contesto della disposizione normativa. La seconda parte dell'art. 171 bis, infatti, se letta nel suo insieme, esprime un valore molto diverso poiché non è la sola ed autonoma “detenzione” a rilevare, ma la detenzione come tassello di una serie definita di condotte tutte elencate e tipizzate: “...importa, distribuisce, vende, detiene a scopo commerciale o imprenditoriale o concede in locazione...”. In questo senso è chiaro che non rileva qualsiasi detenzione, ma solo quella finalizzata ad uno scopo commerciale che è quello appena descritto, ossia quello di fare un profitto vendendo, importando, distribuendo o concedendo in locazione supporti privi del bollino.

La ratio sembra, quindi, quella non tanto di discriminare tra professionisti e imprenditori/commercianti sotto il profilo soggettivo, quanto invece quella di distinguere le duplicazioni come “mezzo” da quelle come “fine”. Così si potrebbe distinguere tra professionisti (e imprese) che non fanno commercio di programmi duplicati ed imprese, invece, che lo fanno, come se fosse una sorta di “oggetto sociale”...

La norma non è di certo formulata con chiarezza, ma se davvero rilevasse solo il profilo soggettivo del soggetto che delinque, si avrebbero due incongruenze:

  • il reato, a questo punto, sarebbe “proprio” poichè potrebbe essere commesso solo da un imprenditore/commerciante e da nessun altro: questo è chiaramente contro la lettera della legge che configura il reato come “comune”, poiché può essere commesso da “chiunque”;
  • si avrebbe una disparità di trattamento non giustificata (e per ciò di probabile rilievo costituzionale) tra il professionista che copia il programma di Office e l'impresa (che non commercia in copie duplicate...) che copia egualmente Office solo per la contabilità, la corrispondenza etc....; insomma, usando il programma allo stesso modo in cui lo usa il professionista, ma con conseguenze assai diverse: il primo infatti, andrebbe esente da responsabilità penale, mentre il secondo invece no, nonostante entrambi pongano in essere la stessa condotta per la stessa finalità.

In definitiva, la detenzione che non sia finalizzata allo scopo di vendere, importare etc.. non rileva penalmente, indipendentemente dalla qualifica (professionista o impresa) di chi detiene.

Si ribadisce, infatti, che poiché si sta parlando della seconda ipotesi di reato, non rileva solo il fine di “profitto”, certamente esistente nella condotta appena ipotizzata, ma di quel particolare profitto generato da una attività che abbia ad oggetto la commercializzazione – a diverso titolo – di copie illecitamente duplicate.

 

 

Scritto da Andrea Buti

Fonte: http://www.consulenti-ict.it